La Vita Umana

Evangelium Vitae

Il valore incomparabile della persona umana

La vita nel tempo, infatti, è condizione basilare, momento iniziale e parte integrante dell'intero e unitario processo dell'esistenza umana. Un processo che, inaspettatamente e immeritatamente, viene illuminato dalla promessa e rinnovato dal dono della vita divina, che raggiungerà il suo pieno compimento nell'eternità (cf. 1 Gv 3, 1-2). Nello stesso tempo, proprio questa chiamata soprannaturale sottolinea relatività della vita terrena dell'uomo e della donna. Essa, in verità, non è realtà «ultima», ma «penultima»; è comunque realtà sacra che ci viene affidata perché la custodiamo con senso di responsabilità e la portiamo a perfezione nell'amore e nel dono di noi stessi a Dio e ai fratelli.
Pur tra difficoltà e incertezze, ogni uomo sinceramente aperto alla verità e al bene, con la luce della ragione e non senza il segreto influsso della grazia, può arrivare a riconoscere nella legge naturale scritta nel cuore (cf. Rm 2, 14-15) il valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine, e ad affermare il diritto di ogni essere umano a vedere sommamente rispettato questo suo bene primario. Sul riconoscimento di tale diritto si fonda l'umana convivenza e la stessa comunità politica.
Deploro a nome della Chiesa intera, con la certezza di interpretare il sentimento autentico di ogni coscienza retta: «Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l'integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l'intimo dello spirito; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni infraumane di vita, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di lavoro con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno non come persone libere e responsabili; tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, inquinano coloro che così si comportano ancor più che non quelli che le subiscono; e ledono grandemente l'onore del Creatore».
Larghi strati dell'opinione pubblica giustificano alcuni delitti contro la vita in nome dei diritti della libertà individuale e, su tale presupposto, ne pretendono non solo l'impunità, ma persino l'autorizzazione da parte dello Stato, al fine di praticarli in assoluta libertà ed anzi con l'intervento gratuito delle strutture sanitarie. Il fatto che le legislazioni di molti Paesi abbiano acconsentito a non punire o addirittura a riconoscere la piena legittimità di tali pratiche contro la vita è insieme sintomo preoccupante e causa non marginale di un grave crollo morale: scelte un tempo unanimemente considerate come delittuose e rifiutate dal comune senso morale, diventano a poco a poco socialmente rispettabili. La stessa medicina, che per sua vocazione è ordinata alla difesa e alla cura della vita umana, in alcuni suoi settori si presta sempre più largamente a realizzare questi atti contro la persona e in tal modo deforma il suo volto, contraddice sé stessa e avvilisce la dignità di quanti la esercitano.
La Chiesa con grande coraggio prende le difese, proclamando i sacrosanti diritti della persona del lavoratore, così ora, quando un'altra categoria di persone è oppressa nel diritto fondamentale alla vita, la Chiesa sente di dover dare voce con immutato coraggio a chi non ha voce. Il suo è sempre il grido evangelico in difesa dei poveri del mondo, di quanti sono minacciati, disprezzati e oppressi nei loro diritti umani ». Ad essere calpestata nel diritto fondamentale alla vita è oggi una grande moltitudine di esseri umani deboli e indifesi come sono, in particolare, i bambini non ancora nati. Se alla Chiesa, sul finire del secolo scorso, non era consentito tacere davanti alle ingiustizie allora operanti, meno ancora essa può tacere oggi, quando alle ingiustizie sociali del passato, purtroppo non ancora superate, in tante parti del mondo si aggiungono ingiustizie ed oppressioni anche più gravi, magari scambiate per elementi di progresso in vista dell'organizzazione di un nuovo ordine mondiale. Un appassionato appello rivolto a tutti e a ciascuno, in nome di Dio: rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita umana! Solo su questa strada troverai giustizia, sviluppo, libertà vera, pace e felicità!
« Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza... Sì, Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono ». La morte vi entra a causa dell'invidia del diavolo (cf. Gn 3, 1.4-5) e del peccato dei progenitori (cf. Gn 2, 17; 3, 17-19). E vi entra in modo violento, attraverso l'uccisione di Abele da parte del fratello Caino: « Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: "Dov'è Abele, tuo fratello?". Egli rispose: "Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?". Riprese: "Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! »
Il fratello uccide il fratello. Come nel primo fratricidio, in ogni omicidio viene violata la parentela « spirituale », che accomuna gli uomini in un'unica grande famiglia. Non poche volte viene violata anche la parentela « della carne e del sangue », ad esempio quando le minacce alla vita si sviluppano nel rapporto tra genitori e figli, come avviene con l'aborto o quando, nel più vasto contesto familiare o parentale, viene favorita o procurata l'eutanasia.
Dopo il delitto, di fronte a Dio, che lo interroga sulla sorte di Abele, Caino elude la domanda con arroganza: « Non lo so » con la menzogna Caino cerca di coprire il delitto. Così è spesso avvenuto e avviene quando le più diverse ideologie servono a giustificare e a mascherare i più atroci delitti verso la persona. « Sono forse io il guardiano di mio fratello? »: Caino non vuole pensare al fratello e rifiuta di vivere quella responsabilità che ogni uomo ha verso l'altro. Viene spontaneo pensare alle odierne tendenze di deresponsabilizzazione dell'uomo verso il suo simile, di cui sono sintomi, tra l'altro, il venir meno della solidarietà verso i membri più deboli della società — quali gli anziani, gli ammalati, gli immigrati, i bambini — e l'indifferenza che spesso si registra nei rapporti tra i popoli anche quando sono in gioco valori fondamentali come la sussistenza, la libertà e la pace. Da questo testo la Chiesa ha ricavato la denominazione di « peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio » e vi ha incluso, anzitutto, l'omicidio volontario. Per gli ebrei, come per molti popoli dell'antichità, il sangue è la sede della vita, anzi « il sangue è la vita » (Dt 12, 23) e la vita, specie quella umana, appartiene solo a Dio: per questo chi attenta alla vita dell'uomo, in qualche modo attenta a Dio stesso. La domanda del Signore « Che hai fatto? », alla quale Caino non può sfuggire, è rivolta anche all'uomo contemporaneo perché prenda coscienza dell'ampiezza e della gravità degli attentati alla vita da cui continua ad essere segnata la storia dell'umanità; vada alla ricerca delle molteplici cause che li generano e li alimentano; rifletta con estrema serietà sulle conseguenze che derivano da questi stessi attentati per l'esistenza delle persone e dei popoli. E come non pensare alla violenza che si fa alla vita di milioni di esseri umani, specialmente bambini, costretti alla miseria, alla sottonutrizione e alla fame, a causa di una iniqua distribuzione delle ricchezze tra i popoli e le classi sociali? o alla seminagione di morte favorita da modelli di esercizio della sessualità che, oltre ad essere moralmente inaccettabili, sono anche forieri di gravi rischi per la vita?
Ma la nostra attenzione intende concentrarsi, in particolare, su un altro genere di attentati, concernenti la vita nascente e terminale, che presentano caratteri nuovi rispetto al passato e sollevano problemi di singolare gravità per il fatto che tendono a perdere, nella coscienza collettiva, il carattere di « delitto » e ad assumere paradossalmente quello del « diritto », al punto che se ne pretende un vero e proprio riconoscimento legale da parte dello Stato e la successiva esecuzione mediante l'intervento gratuito degli stessi operatori sanitari. Tali attentati colpiscono la vita umana in situazioni di massima precarietà, quando è priva di ogni capacità di difesa. Ancora più grave è il fatto che essi, in larga parte, sono consumati proprio all'interno e ad opera di quella famiglia che costitutivamente è invece chiamata ad essere « santuario della vita ». Si cerca di coprire alcuni delitti contro la vita nascente o terminante con locuzioni di tipo sanitario, che distolgono lo sguardo che è in gioco il diritto all’esistenza di una concreta persona umana. Si cerca di imporre una cultura anti-solidaristica che si configura in molti casi come vera « cultura di morte », si può parlare di una guerra dei potenti contro i deboli: la vita che richiederebbe più accoglienza, amore e cura è ritenuta inutile. Chi con la sua malattia, con il suo handicap tende ad essere visto come un nemico da cui difendersi o da eliminare. Per facilitare la diffusione dell'aborto, si sono investite e si continuano ad investire somme ingenti destinate alla messa a punto di preparati farmaceutici, che rendono possibile l'uccisione del feto nel grembo materno. Ma i disvalori insiti nella « mentalità contraccettiva » — ben diversa dall'esercizio responsabile della paternità e maternità, attuato nel rispetto della piena verità dell'atto coniugale — sono tali da rendere più forte proprio questa tentazione, di fronte all'eventuale concepimento di una vita non desiderata. Di fatto la cultura abortista è particolarmente sviluppata proprio in ambienti che rifiutano l'insegnamento della Chiesa sulla contraccezione. Certo, contraccezione ed aborto, dal punto di vista morale, sono mali specificamente diversi: l'una contraddice all'integra verità dell'atto sessuale come espressione propria dell'amore coniugale, l'altro distrugge la vita di un essere umano; la prima si oppone alla virtù della castità matrimoniale, il secondo si oppone alla virtù della giustizia e viola direttamente il precetto divino « non uccidere ». Ma in moltissimi altri casi tali pratiche affondano le radici in una mentalità edonistica e deresponsabilizzante nei confronti della sessualità e suppongono un concetto egoistico di libertà che vede nella procreazione un ostacolo al dispiegarsi della propria personalità. La vita che potrebbe scaturire dall'incontro sessuale diventa così il nemico da evitare assolutamente e l'aborto l'unica possibile risposta risolutiva di fronte ad una contraccezione fallita.
Anche le varie tecniche di riproduzione artificiale, che sembrerebbero porsi a servizio della vita e che sono praticate non poche volte con questa intenzione, in realtà aprono la porta a nuovi attentati contro la vita. Al di là del fatto che esse sono moralmente inaccettabili, dal momento che dissociano la procreazione dal contesto integralmente umano dell'atto coniugale,14 queste tecniche registrano alte percentuali di insuccesso: esso riguarda non tanto la fecondazione, quanto il successivo sviluppo dell'embrione, esposto al rischio di morte entro tempi in genere brevissimi. Inoltre, vengono prodotti talvolta embrioni in numero superiore a quello necessario per l'impianto nel grembo della donna e questi cosiddetti « embrioni soprannumerari » vengono poi soppressi o utilizzati per ricerche che, con il pretesto del progresso scientifico o medico, in realtà riducono la vita umana a semplice « materiale biologico » di cui poter liberamente disporre. Le diagnosi pre-natali, che non presentano difficoltà morali se fatte per individuare eventuali cure necessarie al bambino non ancora nato, diventano troppo spesso occasione per proporre e procurare l'aborto. È l'aborto eugenetico, la cui legittimazione nell'opinione pubblica nasce da una mentalità — a torto ritenuta coerente con le esigenze della « terapeuticità » — che accoglie la vita solo a certe condizioni e che rifiuta il limite, l'handicap, l'infermità. Seguendo questa stessa logica, si è giunti a negare le cure ordinarie più elementari, e perfino l'alimentazione, a bambini nati con gravi handicap o malattie. Lo scenario contemporaneo, inoltre, si fa ancora più sconcertante a motivo delle proposte, avanzate qua e là, di legittimare, nella stessa linea del diritto all'aborto, persino l'infanticidio, ritornando così ad uno stadio di barbarie che si sperava di aver superato per sempre.
Minacce non meno gravi incombono pure sui malati inguaribili e sui morenti, in un contesto sociale e culturale che, rendendo più difficile affrontare e sopportare la sofferenza, acuisce la tentazione di risolvere il problema del soffrire eliminandolo alla radice con l'anticipare la morte al momento ritenuto più opportuno. In tale scelta confluiscono spesso elementi di diverso segno, purtroppo convergenti a questo terribile esito. Può essere decisivo, nel soggetto malato, il senso di angoscia, di esasperazione, persino di disperazione, provocato da un'esperienza di dolore intenso e prolungato. Tutto ciò è aggravato da un'atmosfera culturale che non coglie nella sofferenza alcun significato o valore, anzi la considera il male per eccellenza, da eliminare ad ogni costo; il che avviene specialmente quando non si ha una visione religiosa che aiuti a decifrare positivamente il mistero del dolore. Possiamo notare l’atteggiamento dell’uomo che si illude di potersi impadronire della vita e della morte perché decide di esse, mentre in realtà viene sconfitto e schiacciato da una morte irrimediabilmente chiusa ad ogni prospettiva di senso e ad ogni speranza. Si propone così la soppressione dei neonati malformati, degli handicappati gravi, degli inabili, degli anziani, soprattutto se non autosufficienti, e dei malati terminali.
La domanda del Signore « Che hai fatto? » (Gn 4, 10) sembra essere quasi un invito rivolto a Caino ad andare oltre la materialità del suo gesto omicida, per coglierne tutta la gravità nelle motivazioni che ne sono all'origine e nelle conseguenze che ne derivano. Le scelte contro la vita nascono, talvolta, da situazioni difficili o addirittura drammatiche di profonda sofferenza, di solitudine, di totale mancanza di prospettive economiche, di depressione e di angoscia per il futuro. Tali circostanze possono attenuare anche notevolmente la responsabilità soggettiva e la conseguente colpevolezza di quanti compiono queste scelte in sé criminose. Tuttavia oggi il problema va ben al di là del pur doveroso riconoscimento di queste situazioni personali. Esso si pone anche sul piano culturale, sociale e politico, dove presenta il suo aspetto più sovversivo e conturbante nella tendenza, sempre più largamente condivisa, a interpretare i menzionati delitti contro la vita come legittime espressioni della libertà individuale, da riconoscere e proteggere come veri e propri diritti.
L'idea dei «diritti umani» — come diritti inerenti a ogni persona e precedenti ogni Costituzione e legislazione degli Stati — incorre oggi in una sorprendente contraddizione: proprio in un'epoca in cui si proclamano solennemente i diritti inviolabili della persona e si afferma pubblicamente il valore della vita, lo stesso diritto alla vita viene praticamente negato e conculcato, in particolare nei momenti più emblematici dell'esistenza, quali sono il nascere e il morire. Come mettere d'accordo queste ripetute affermazioni di principio con il continuo moltiplicarsi e la diffusa legittimazione degli attentati alla vita umana? Come conciliare queste dichiarazioni col rifiuto del più debole, del più bisognoso, dell'anziano, dell'appena concepito? Questi attentati vanno in direzione esattamente contraria al rispetto della vita e rappresentano una minaccia frontale a tutta la cultura dei diritti dell'uomo. Se poi lo sguardo si allarga ad un orizzonte planetario notiamo l'egoismo dei Paesi ricchi che chiudono l'accesso allo sviluppo dei Paesi poveri o lo condizionano ad assurdi divieti di procreazione, contrapponendo lo sviluppo all'uomo? Dove stanno le radici di una contraddizione tanto paradossale? Le possiamo riscontrare in quella mentalità che, esasperando e persino deformando il concetto di soggettività, riconosce come titolare di diritti solo chi si presenta con piena o almeno incipiente autonomia ed esce da condizioni di totale dipendenza dagli altri. Ma come conciliare tale impostazione con l'esaltazione dell'uomo quale essere « indisponibile »? La teoria dei diritti umani si fonda proprio sulla considerazione del fatto che l'uomo, diversamente dagli animali e dalle cose, non può essere sottomesso al dominio di nessuno. Si deve pure accennare a quella logica che tende a identificare la dignità personale con la capacità di comunicazione verbale ed esplicita e, in ogni caso, sperimentabile. È chiaro che, con tali presupposti, non c'è spazio nel mondo per chi, come il nascituro o il morente, è un soggetto strutturalmente debole, sembra totalmente assoggettato alla mercé di altre persone e da loro radicalmente dipendente e sa comunicare solo mediante il muto linguaggio di una profonda simbiosi di affetti. Ma questo è l'esatto contrario di quanto ha voluto storicamente affermare lo Stato di diritto, come comunità nella quale alle « ragioni della forza » si sostituisce la « forza della ragione ». Ad un altro livello, le radici della contraddizione che intercorre tra la solenne affermazione dei diritti dell'uomo e la loro tragica negazione nella pratica risiedono in una concezione della libertà che esalta in modo assoluto il singolo individuo, e non lo dispone alla solidarietà, alla piena accoglienza e al servizio dell'altro. Proprio in questo senso si può interpretare la risposta di Caino alla domanda del Signore « Dov'è Abele, tuo fratello? »: « Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello? » (Gn 4, 9). Sì, ogni uomo è « guardiano di suo fratello », perché Dio affida l'uomo all'uomo. Ed è anche in vista di tale affidamento che Dio dona a ogni uomo la libertà, che possiede un'essenziale dimensione relazionale. Essa è grande dono del Creatore, posta com'è al servizio della persona e della sua realizzazione mediante il dono di sé e l'accoglienza dell'altro; quando invece viene assolutizzata in chiave individualistica, la libertà è svuotata del suo contenuto originario ed è contraddetta nella sua stessa vocazione e dignità. C'è un aspetto ancora più profondo da sottolineare: la libertà rinnega sé stessa, si autodistrugge e si dispone all'eliminazione dell'altro quando non riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità. Ogni volta che la libertà si chiude persino alle evidenze primarie di una verità oggettiva e comune, fondamento della vita personale e sociale, la persona finisce per assumere come unico riferimento per le proprie scelte non più la verità sul bene e sul male, ma solo la sua opinione, il suo egoistico interesse. il «diritto» cessa di essere tale, perché non è più solidamente fondato sull'inviolabile dignità della persona, ma viene assoggettato alla volontà del più forte. Lo Stato non è più la casa comune dove tutti possono vivere secondo principi di uguaglianza sostanziale, ma si trasforma in Stato tiranno, che presume di poter disporre della vita dei più deboli e indifesi, dal bambino non ancora nato al vecchio, in nome di una utilità pubblica che non è altro, in realtà, che l'interesse di alcuni. In verità, siamo di fronte solo a una tragica parvenza di legalità e l'ideale democratico, che è davvero tale quando riconosce e tutela la dignità di ogni persona umana, è tradito nelle sue stesse basi: «Come è possibile parlare ancora di dignità di ogni persona umana, quando si permette che si uccida la più debole e la più innocente? In nome di quale giustizia si opera fra le persone la più ingiusta delle discriminazioni, dichiarandone alcune degne di essere difese, mentre ad altre questa dignità è negata?». Rivendicare il diritto all'aborto, all'infanticidio, all'eutanasia e riconoscerlo legalmente, equivale ad attribuire alla libertà umana un significato perverso e iniquo: quello di un potere assoluto sugli altri e contro gli altri. Ma questa è la morte della vera libertà: « In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato » (Gv. 8,34)
Quando viene meno il senso di Dio, anche il senso dell'uomo viene minacciato e inquinato, come afferma il Concilio Vaticano II: «La creatura senza il Creatore svanisce... Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa». L'uomo non riesce più a percepirsi come « misteriosamente altro» rispetto alle diverse creature terrene; egli si considera come uno dei tanti esseri viventi, come un organismo che, tutt'al più, ha raggiunto uno stadio molto elevato di perfezione. Chiuso nel ristretto orizzonte della sua fisicità, si riduce in qualche modo a «una cosa» e non coglie più il carattere «trascendente» del suo «esistere come uomo». Non considera più la vita come uno splendido dono di Dio, una realtà «sacra» affidata alla sua responsabilità e quindi alla sua amorevole custodia, alla sua «venerazione». Essa diventa semplicemente «una cosa», che egli rivendica come sua esclusiva proprietà, totalmente dominabile e manipolabile. Del resto, una volta escluso il riferimento a Dio, non sorprende che il senso di tutte le cose ne esca profondamente deformato, e la stessa natura, non più «mater», sia ridotta a «materiale» aperto a tutte le manipolazioni. A ciò sembra condurre una certa razionalità tecnico-scientifica, dominante nella cultura contemporanea, che nega l'idea stessa di una verità del creato da riconoscere o di un disegno di Dio sulla vita da rispettare. In realtà, vivendo «come se Dio non esistesse», l'uomo smarrisce non solo il mistero di Dio, ma anche quello del mondo e il mistero del suo stesso essere. L’eclissi del senso di Dio conduce all’individualismo infatti scrive l'Apostolo: « Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d'una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno » (Rm 1, 28). Così i valori dell'essere sono sostituiti da quelli dell'avere. In un simile contesto la sofferenza, inevitabile peso dell'esistenza umana ma anche fattore di possibile crescita personale, viene « censurata », respinta come inutile, anzi combattuta come male da evitare sempre e comunque. Anche il corpo non è più percepito come realtà tipicamente personale, segno e luogo della relazione con gli altri, con Dio e con il mondo. Esso è ridotto a pura materialità: è semplice complesso di organi, funzioni ed energie da usare secondo criteri di mera godibilità ed efficienza. Conseguentemente, anche la sessualità è depersonalizzata e strumentalizzata: da segno, luogo e linguaggio dell'amore, ossia del dono di sé e dell'accoglienza dell'altro secondo l'intera ricchezza della persona, diventa sempre più occasione e strumento di affermazione del proprio io e di soddisfazione egoistica dei propri desideri e istinti. Così si deforma e falsifica il contenuto originario della sessualità umana e i due significati, unitivo e procreativo, insiti nella natura stessa dell'atto coniugale, vengono artificialmente separati: in questo modo l'unione è tradita e la fecondità è sottomessa all'arbitrio dell'uomo e della donna. La procreazione allora diventa il « nemico » da evitare nell'esercizio della sessualità: se viene accettata, è solo perché esprime il proprio desiderio, o addirittura bambino, il malato o sofferente, l'anziano. Il criterio proprio della dignità personale — quello cioè del rispetto, della gratuità e del servizio — viene sostituito dal criterio dell'efficienza, della funzionalità e dell'utilità: l'altro è apprezzato non per quello che « è », ma per quello che « ha, fa e rende ». È la supremazia del più forte sul più debole.
Il sangue di Cristo, mentre rivela la grandezza dell'amore del Padre, manifesta come l'uomo sia prezioso agli occhi di Dio e come sia inestimabile il valore della sua vita. Ce lo ricorda l'apostolo Pietro: « Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l'argento e l'oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo. Il credente impara a riconoscere e ad apprezzare la dignità quasi divina di ogni uomo e può esclamare con sempre rinnovato e grato stupore: « Quale valore deve avere l'uomo davanti agli occhi del Creatore se "ha meritato di avere un tanto nobile e grande Redentore". E’ ancora nel sangue di Cristo che tutti gli uomini attingono la forza per impegnarsi a favore della vita. Proprio questo sangue è il motivo più forte di speranza, anzi è il fondamento dell'assoluta certezza che secondo il disegno di Dio la vittoria sarà della vita. Ci troviamo di fronte ad uno scontro immane e drammatico tra il male e il bene, la morte e la vita, la « cultura della morte » e la « cultura della vita ». Ci troviamo non solo « di fronte », ma necessariamente « in mezzo » a tale conflitto: tutti siamo coinvolti e partecipi, con la responsabilità di scegliere incondizionatamente a favore della vita.
«La vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta » (1 Gv 1, 2): lo sguardo rivolto a Cristo, « il Verbo della vita » « Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza ». Gesù da la possibilità all'uomo di « conoscere » la verità intera circa il valore della vita umana; è da quella « fonte » che gli viene la capacità di « fare » perfettamente tale verità (cf. Gv 3, 21), ossia di assumere e realizzare in pienezza la responsabilità di amare e servire, di difendere e promuovere la vita umana. Il Vangelo della vita è scritto in qualche modo nel cuore stesso di ogni uomo e donna « dal principio », ossia dalla creazione stessa cosi che può essere conosciuto nei suoi tratti essenziali anche dalla ragione umana.
Il senso più profondo e originale di questa meditazione sul messaggio rivelato circa la vita umana è stato colto dall'apostolo Giovanni, quando scrive, all'inizio della sua Prima Lettera: « Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi » (1, 1-3). la vita divina ed eterna, infatti, è il fine a cui l'uomo che vive in questo mondo è orientato e chiamato.
In verità, la pienezza evangelica dell'annuncio sulla vita è preparata già nell'Antico Testamento. È soprattutto nella vicenda dell'Esodo. Israele scopre quanto la sua vita sia preziosa agli occhi di Dio. il Signore gli si rivela come salvatore, capace di assicurare un futuro a chi è senza speranza. Nasce così in Israele una precisa consapevolezza: la sua vita non si trova alla mercé di un faraone che può usarne con dispotico arbitrio; al contrario, essa è l'oggetto di un tenero e forte amore da parte di Dio. Israele vi apprende che, ogni volta in cui è minacciato nella sua esistenza, non ha che da ricorrere a Dio con rinnovata fiducia per trovare in lui efficace assistenza. Israele progredisce anche nella percezione del senso e del valore della vita in quanto tale, e sperimenta il sentimento della precarietà della vita e dalla consapevolezza delle minacce che la insidiano.
E' soprattutto il problema del dolore ad incalzare la fede e a metterla alla prova. Come non cogliere il gemito universale dell'uomo nella meditazione del libro di Giobbe? L'innocente schiacciato dalla sofferenza è, comprensibilmente, portato a chiedersi: « Perché dare la luce ad un infelice e la vita a chi ha l'amarezza nel cuore, a quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro? » (3, 20-21). Ma anche nella più fitta oscurità la fede orienta al riconoscimento fiducioso e adorante del « mistero »: « Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te » (Gb 42, 2).
L'esperienza del popolo dell'Alleanza si rinnova in quella di tutti i « poveri » che incontrano Gesù di Nazaret a quanti si sentono minacciati e impediti nella loro esistenza, annuncia che anche la loro vita è un bene, al quale l'amore del Padre dà senso e valore. Così quanti soffrono per un'esistenza in qualche modo « diminuita », ascoltano da lui la buona novella dell'interesse di Dio nei loro confronti ed hanno la conferma che anche la loro vita è un dono gelosamente custodito nelle mani del Padre. Sono i « poveri » ad essere interpellati particolarmente dalla predicazione e dall'azione di Gesù. Le folle di malati e di emarginati, che lo seguono e lo cercano (cf. Mt 4, 23-25), trovano nella sua parola e nei suoi gesti la rivelazione di quale grande valore abbia la loro vita e di come siano fondate le loro attese di salvezza. La Chiesa sa di essere portatrice di un messaggio di salvezza che risuona in tutta la sua novità proprio nelle situazioni di miseria e di povertà della vita dell'uomo. Così fa Pietro con la guarigione dello storpio, posto ogni giorno presso la porta « Bella » del tempio di Gerusalemme a chiedere l'elemosina: « Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina! ». Infatti « Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi ». Le contraddizioni e rischi della vita vengono assunti pienamente da Gesù: « da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà ». La condivisione delle condizioni più umili e precarie della vita umana (cf. Fil 2, 6-7). Gesù vive questa povertà lungo tutto il corso della sua vita, fino al momento culminante della Croce: « umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome ». È proprio nella sua morte che Gesù rivela tutta la grandezza e il valore della vita, in quanto il suo donarsi in croce diventa fonte di vita nuova per tutti gli uomini. Davvero grande è il valore della vita umana se il Figlio di Dio l'ha assunta e l'ha resa luogo nel quale la salvezza si attua per l'intera umanità.
La vita che Dio dona all'uomo è diversa e originale di fronte a quella di ogni altra creatura vivente, in quanto egli, pur imparentato con la polvere della terra, è nel mondo manifestazione di Dio, segno della sua presenza, orma della sua gloria. All'uomo è donata un'altissima dignità, che ha le sue radici nell'intimo legame che lo unisce al suo Creatore: nell'uomo risplende un riflesso della stessa realtà di Dio. Si riafferma così il primato dell'uomo sulle cose: esse sono finalizzate a lui e affidate alla sua responsabilità, mentre per nessuna ragione egli può essere asservito ai suoi simili e quasi ridotto al rango di cosa. Solo la sua creazione è presentata come frutto di una speciale decisione da parte di Dio, di una deliberazione che consiste nello stabilire un legame particolare e specifico con il Creatore: « Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza » (Gn 1, 26). La vita che Dio offre all'uomo è un dono con cui Dio partecipa qualcosa di sé alla sua creatura. A ciò l'autore sacro riconduce non solo il loro dominio sul mondo, ma anche le facoltà spirituali più proprie dell'uomo, come la ragione, il discernimento del bene e del male, la volontà libera: « Li riempì di dottrina e d'intelligenza, e indicò loro anche il bene e il male » (Sir 17, 6). La capacità di attingere la verità e la libertà sono prerogative dell'uomo in quanto creato ad immagine del suo Creatore, il Dio vero e giusto (cf. Dt 32, 4). Soltanto l'uomo, fra tutte le creature visibili, è « capa- ce di conoscere e di amare il proprio Creatore ».24 La vita che Dio dona all'uomo è ben più di un esistere nel tempo. È tensione verso una pienezza di vita; è germe di una esistenza che va oltre i limiti stessi del tempo: « Sì, Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità; lo fece a immagine della propria natura » (Sap 2, 23). L'antica narrazione, infatti, parla di un soffio divino che viene inalato nell'uomo perché questi entri nella vita: « Il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente. L'insoddisfazione che accompagna l'uomo nei suoi giorni. Fatto da Dio, portando in sé una traccia indelebile di Dio, l'uomo tende naturalmente a lui. Sant'Agostino dice: « Tu ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto sino a quando non riposa in Te ». Solo l'apparizione della donna, di un essere cioè che è carne dalla sua carne e osso dalle sue ossa (cf. Gn 2, 23), e in cui ugualmente vive lo spirito di Dio Creatore, può soddisfare l'esigenza di dialogo inter-personale che è così vitale per l'esistenza umana. Nell'altro, uomo o donna, si riflette Dio stesso, approdo definitivo e appagante di ogni persona.Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi, il figlio dell'uomo perché te ne curi? », si chiede il Salmista (Sal 8, 5). Di fronte all'immensità dell'universo, egli è ben piccola cosa; ma proprio questo contrasto fa emergere la sua grandezza: « Lo hai fatto poco meno degli angeli (ma si potrebbe tradurre anche: « poco meno di Dio »), di gloria e di onore lo hai coronato » (Sal 8, 6). La gloria di Dio risplende sul volto dell'uomo. In lui il Creatore trova il suo riposo, come commenta stupito e commosso sant'Ambrogio: « È finito il sesto giorno e si è conclusa la creazione del mondo con la formazione di quel capolavoro che è l'uomo, il quale esercita il dominio su tutti gli esseri viventi ed è come il culmine dell'universo e la suprema bellezza di ogni essere creato. Con il peccato l'uomo si ribella al Creatore, finendo con l'idolatrare le creature: « Hanno venerato e adorato la creatura al posto del Creatore ». Nella vita dell'uomo, l'immagine di Dio torna a risplendere e si manifesta in tutta la sua pienezza con la venuta nella carne umana del Figlio di Dio: « Egli è immagine del Dio invisibile »

«Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi» (Sal 139/138, 16): il delitto abominevole dell'aborto

Fra tutti i delitti che l'uomo può compiere contro la vita, l'aborto procurato presenta caratteristiche che lo rendono particolarmente grave e deprecabile. Il Concilio Vaticano II lo definisce, insieme all'infanticidio, «delitto abominevole» Ma oggi, nella coscienza di molti, la percezione della sua gravità è andata progressivamente oscurandosi. L'accettazione dell'aborto nella mentalità, nel costume e nella stessa legge è segno eloquente di una pericolosissima crisi del senso morale, che diventa sempre più incapace di distinguere tra il bene e il male, persino quando è in gioco il diritto fondamentale alla vita. Di fronte a una così grave situazione, occorre più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno. A tale proposito risuona categorico il rimprovero del Profeta: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre» (Is 5, 20). Proprio nel caso dell'aborto si registra la diffusione di una terminologia ambigua, come quella di «interruzione della gravidanza», che tende a nasconderne la vera natura e ad attenuarne la gravità nell'opinione pubblica. Forse questo fenomeno linguistico è esso stesso sintomo di un disagio delle coscienze. Ma nessuna parola vale a cambiare la realtà delle cose: l'aborto procurato è l'uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita. La gravità morale dell'aborto procurato appare in tutta la sua verità se si riconosce che si tratta di un omicidio e, in particolare, se si considerano le circostanze specifiche che lo qualificano. Chi viene soppresso è un essere umano che si affaccia alla vita, ossia quanto di più innocente in assoluto si possa immaginare: mai potrebbe essere considerato un aggressore, meno che mai un ingiusto aggressore! È debole, inerme, al punto di essere privo anche di quella minima forma di difesa che è costituita dalla forza implorante dei gemiti e del pianto del neonato. È totalmente affidato alla protezione e alle cure di colei che lo porta in grembo. Eppure, talvolta, è proprio lei, la mamma, a deciderne e a chiederne la soppressione e persino a procurarla. È vero che molte volte la scelta abortiva riveste per la madre carattere drammatico e doloroso, in quanto la decisione di disfarsi del frutto del concepimento non viene presa per ragioni puramente egoistiche e di comodo, ma perché si vorrebbero salvaguardare alcuni importanti beni, quali la propria salute o un livello dignitoso di vita per gli altri membri della famiglia. Talvolta si temono per il nascituro condizioni di esistenza tali da far pensare che per lui sarebbe meglio non nascere. Tuttavia, queste e altre simili ragioni, per quanto gravi e drammatiche, non possono mai giustificare la soppressione deliberata di un essere umano innocente.
A decidere della morte del bambino non ancora nato, accanto alla madre, ci sono spesso altre persone. Anzitutto, può essere colpevole il padre del bambino, non solo quando espressamente spinge la donna all'aborto, ma anche quando indirettamente favorisce tale sua decisione perché la lascia sola di fronte ai problemi della gravidanza: in tal modo la famiglia viene mortalmente ferita e profanata nella sua natura di comunità di amore e nella sua vocazione ad essere «santuario della vita». Né vanno taciute le sollecitazioni che a volte provengono dal più ampio contesto familiare e dagli amici. Non di rado la donna è sottoposta a pressioni talmente forti da sentirsi psicologicamente costretta a cedere all'aborto: non v'è dubbio che in questo caso la responsabilità morale grava particolarmente su quelli che direttamente o indirettamente l'hanno forzata ad abortire. Responsabili sono pure i medici e il personale sanitario, quando mettono a servizio della morte la competenza acquisita per promuovere la vita. Ma la responsabilità coinvolge anche i legislatori, che hanno promosso e approvato leggi abortive e, nella misura in cui la cosa dipende da loro, gli amministratori delle strutture sanitarie utilizzate per praticare gli aborti. Una responsabilità generale non meno grave riguarda sia quanti hanno favorito il diffondersi di una mentalità di permissivismo sessuale e disistima della maternità, sia coloro che avrebbero dovuto assicurare — e non l'hanno fatto — valide politiche familiari e sociali a sostegno delle famiglie, specialmente di quelle numerose o con particolari difficoltà economiche ed educative. Non si può infine sottovalutare la rete di complicità che si allarga fino a comprendere istituzioni internazionali, fondazioni e associazioni che si battono sistematicamente per la legalizzazione e la diffusione dell'aborto nel mondo. In tal senso l'aborto va oltre la responsabilità delle singole persone e il danno loro arrecato, assumendo una dimensione fortemente sociale: è una ferita gravissima inferta alla società e alla sua cultura da quanti dovrebbero esserne i costruttori e i difensori. Come ho scritto nella mia Lettera alle Famiglie, «ci troviamo di fronte ad un'enorme minaccia contro la vita, non solo di singoli individui, ma anche dell'intera civiltà». Ci troviamo di fronte a quella che può definirsi una «struttura di peccato» contro la vita umana non ancora nata.
Alcuni tentano di giustificare l'aborto sostenendo che il frutto del concepimento, almeno fin a un certo numero di giorni, non può essere ancora considerato una vita umana personale. In realtà, «dal momento in cui l'ovulo è fecondato, si inaugura una vita che non è quella del padre o della madre, ma di un nuovo essere umano che si sviluppa per proprio conto. Non sarà mai reso umano se non lo è stato fin da allora. A questa evidenza di sempre... la scienza genetica moderna fornisce preziose conferme. Essa ha mostrato come dal primo istante si trovi fissato il programma di ciò che sarà questo vivente: una persona, questa persona individua con le sue note caratteristiche già ben determinate. Fin dalla fecondazione è iniziata l'avventura di una vita umana, di cui ciascuna delle grandi capacità richiede tempo, per impostarsi e per trovarsi pronta ad agire». Anche se la presenza di un'anima spirituale non può essere rilevata dall'osservazione di nessun dato sperimentale, sono le stesse conclusioni della scienza sull'embrione umano a fornire «un'indicazione preziosa per discernere razionalmente una presenza personale fin da questo primo comparire di una vita umana: come un individuo umano non sarebbe una persona umana?». Del resto, tale è la posta in gioco che, sotto il profilo dell'obbligo morale, basterebbe la sola probabilità di trovarsi di fronte a una persona per giustificare la più netta proibizione di ogni intervento volto a sopprimere l'embrione umano. Proprio per questo, al di là dei dibattiti scientifici e delle stesse affermazioni filosofiche nelle quali il Magistero non si è espressamente impegnato, la Chiesa ha sempre insegnato, e tuttora insegna, che al frutto della generazione umana, dal primo momento della sua esistenza, va garantito il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'essere umano nella sua totalità e unità corporale e spirituale: «L'essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita».

Sperimentzione sugli embrioni

Alcuni vogliono legittimare il fatto che il frutto del concepimento, almeno fin a un certo numero di giorni, non può essere ancora considerato una vita umana personale. In realtà, «dal momento in cui l'ovulo è fecondato, si inaugura una vita che non è quella del padre o della madre, ma di un nuovo essere umano che si sviluppa per proprio conto. Non sarà mai reso umano se non lo è stato fin da allora. La genetica fornisce preziose conferme infatti mostra come dal primo istante si trovi fissato il programma di ciò che sarà questo vivente: una persona, un individuo con le sue caratteristiche ben determinate.
Vogliamo garantire il rispetto dovuto all'essere umano «L'essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e, da quello stesso momento si devono riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto di ogni essere umano alla vita».
La vita umana è sacra e inviolabile in ogni momento della sua esistenza, anche in quello iniziale che precede la nascita.
La sperimentazione sugli embrioni: «si devono ritenere leciti gli interventi sull'embrione umano a patto che rispettino la vita e l'integrità dell'embrione, non comportino per lui rischi sproporzionati, ma siano finalizzati alla sua guarigione, al miglioramento delle sue condizioni di salute o alla sua sopravvivenza individuale». Si potrebbe rischiare altrimenti l'uso degli embrioni come oggetto di sperimentazione oppure lo sfruttamento di questi come «materiale biologico» da utilizzare sia come fornitori di organi o di tessuti da trapiantare per la cura di alcune malattie, e questo costituisce un delitto nei riguardi della loro dignità di esseri umani, che hanno diritto al medesimo rispetto dovuto al bambino già nato e ad ogni persona. In realtà, l'uccisione di creature umane innocenti, seppure a vantaggio di altre, costituisce un atto assolutamente inaccettabile.
Le tecniche diagnostiche prenatali, quando sono esenti da rischi sproporzionati per il bambino e per la madre e sono ordinate a rendere possibile una terapia precoce o anche a favorire una serena e consapevole accettazione del nascituro, sono moralmente lecite. Basti che non siano messe al servizio di una mentalità eugenetica, che accetta l'aborto selettivo, per impedire la nascita di bambini affetti da vari tipi di anomalie. Una simile mentalità è ignominiosa pretende di misurare il valore di una vita umana soltanto secondo parametri di «normali-tà» e di benessere fisico, aprendo così la strada alla legittimazione anche dell'infanticidio e dell'eutanasia.
In realtà tanti individui, affetti da gravi menomazioni, conducono la loro esistenza quando sono da noi accettati ed amati, costituiscono una testimonianza particolarmente efficace dei valori autentici che qualificano la vita e che la rendono, anche in condizioni di difficoltà, preziosa per sé e per gli altri.
Chi è l’uomo per decidere se consentire o se negare la vita ad una creatura di Dio? Questo è il vero peccato, mettersi al posto di Dio e decidere che cosa è bene e cosa è male. Adamo ed Eva peccarono perché mangiarono dell’albero della conoscenza del bene e del male, perché, ingannati, volevano diventare uguali a Dio, il quale, prima che l’uomo arrivasse anche all’albero della vita lo allontanò. Poniamo attenzione perché anche noi possiamo essere ingannati, in nome della Scienza che esiste per servire l’uomo, a mangiare dell’albero della vita che ci rende uguali a Dio e noi sappiamo di non esserlo.

NB:
E' un riassunto di tutta l'enciclica, vi invitiamo a leggerla tutta , cercandola su internet: www.vatican.va